Si può usucapire la casa in cui si è vissuto per tanti anni grazie alla disponibilità dei genitori? Vediamo di chiarire gli aspetti di una questione assai frequente nella prassi.
Com’è noto, l’usucapione è un modo d’acquisto della proprietà a titolo originario che presuppone l’esercizio continuo e ininterrotto di un possesso acquisito in modo pacifico, per almeno 20 anni. Presupposti dell’usucapione sono quindi il possesso, ossia il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà (requisito oggettivo), e l’animus possidendi, che si sostanzia nella volontà di utilizzare la cosa come proprietario (requisito soggettivo).
È proprio quest’ultimo elemento, il requisito soggettivo dell’animus, che distingue il possesso dalla semplice detenzione, laddove il detentore ha il corpus, ma ne riconosce l’altrui diritto, difettando l’animus possidendi, posto che i poteri del detentore derivano da un titolo (ad esempio, un contratto di locazione).
Talvolta può verificarsi il mutamento della detenzione in possesso, nel caso in cui, ad esempio, si verifichi il mutamento del titolo (ad es., l’immobile concesso in locazione viene donato o venduto al conduttore) o in ipotesi di opposizione contro il possessore (ad es., il conduttore non paga il canone di locazione). Si parla in tal caso di interversione del possesso.
In tale contesto, gli atti compiuti con la semplice tolleranza del proprietario non giovano ai fini dell’acquisto della proprietà per usucapione, poiché non presuppongono il disinteresse del proprietario.
Situazione tipica è proprio quella dell’immobile conferito dal genitore al figlio in comodato d’uso familiare, anche in vista di un matrimonio o di una convivenza, laddove l’animus che permea il comodatario è detinendi. Infatti, colui il quale riceve l’abitazione riconosce la titolarità del genitore e, nonostante decorrano vent’anni, non potrà usucapire, difettando il requisito principe del possesso.
Se è pacifico che in tali casi si tratti di detenzione, la questione è solo una: può verificarsi, negli anni, l’interversione del possesso? Cioè, cosa succede se il comodatario (in questo caso il figlio che abita nella casa) pone in essere condotte incompatibili con i limiti assegnati dal comodante, che si sostanziano in esercizio del diritto di proprietà? Può configurarsi in tal caso, un possesso utile ai fini dell’usucapione?
La peculiarità del caso concreto è lo stretto rapporto parentale intercorrente tra comodante e comodatario, e questo vincolo determina una presunzione di tolleranza degli atti compiuti dal figlio per via di spirito di genitorialità, senza che ciò solo possa implicare disinteresse del proprietario nei confronti del bene.
Se è vero che il figlio gestisce il bene consapevole di non esserne proprietario, custodendolo con il benestare dello stesso, che ne tollera la presenza e le attività ivi svolte, ci sono situazioni in cui si può arrivare per converso a suppore il disinteresse del proprietario e perfino ritenersi superata la presunzione di tolleranza attraverso una prova rigorosa del mutamento dell’animus.
Devono tuttavia sussistere ed essere rigorosamente dimostrate circostanze fattuali forti, atte a superare detta presunzione: un perdurante rapporto conflittuale, la ristrutturazione dell’immobile senza il consenso del genitore, la realizzazione di nuove opere, il cambio di destinazione d’uso delle stesse, la realizzazione di lavori ordinari o straordinari senza la richiesta di restituzione delle somme, etc.
Tutti elementi, questi, che potrebbero essere idonei a provare l’interversione del possesso, trattandosi di tipiche condotte del proprietario. Ma in mancanza di tali fatti e della prova rigorosa degli stessi, il figlio non può usucapire l’immobile concesso in uso dal genitore.
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